Estate 2530, Ghandi
Holden Carter attivò la chiamata via cortex, la bloccò prima che potesse essere inoltrata, incassò la testa nelle spalle e si voltò verso sua moglie. Che in mano aveva una fetta di pane attaccata ad un coltello. In mezzo, del burro. La fissò con sguardo sofferto.
-Perchè io?
-Perchè ti avevo detto di far piombare le finestre.
-Ma...
Sguardo impietoso di Quinn Thomson.
-Ma...
Passo in avanti di Quinn Thomson. Fetta con burro in mano.
-Okay, okay. Solo... Lui. Non lei.
-Perchè conti sul fatto che sia fatto?
-Perchè credo che sia in viaggio.
-Furbo.
Gli concesse Quinn. Holden alzò le spalle larghe, prese un bel respiro ed avviò la chiamata. All'altro lembo del cortex, su una rotta sicura fra Clackline e Goldera, Eleazar Ritter stava cazzegg... parlando di lavoro con il capitano Neville davanti ad una bottiglia di bourbon. Accettò la chiamata con un'espressione placidamente stupita.
-Carter?
-Carter?- Gli fece eco Vergil, seduto poco lontano.
-Ritter.- Rispose la voce di Holden Carter.
-Salve, Carter.
-Salve, Ritter.
-Mmm.
-Come va?
-Molto bene, stiamo smistando una partita di blast.
-Ah, bene.
-Già.
-Mmm.
-Carter, cazzo è successo?
-Ahm.
-Carter?
-Ho perso tua figlia.
-Cos...
-I ragazzi sono scomparsi.
-...
-NON in quel senso
-...
-Il fatto è che non ho sigillato...
-PIOMBATO- lo corresse la voce di Quinn, vicinissima.
-..Piombato le finestre della loro camera.
-Loro camera?- Indagò la voce di Ritter.
-Sua camera.
-...
-Ritter, abbiamo già chiamato lo sceriffo, ma... Non sono ancora passate quaranta ore e sai, con la questione dell'idolo scomparso dal tempio....
Ritter non "sapeva". Eleazar Ritter era cresciuto su Corona, dove un bambino valeva cento idoli buddisti dorati.
-Mh,
-Ritter, giuro, sto...iamo facendo tutto il possibile. Solo, ti prego, non...
-...Dirlo ad Eir?
-Eh...
-Secondo me lo sa già. Quinn lo sa?
-...
-Scherzo, Carter.
-Ah.
Ritter si stava quasi divertendo. Quasi. Vergil se la stava spassando, su quello non c'era dubbio. Entrambi sapevano che Eir si sarebbe limitata ad alzare le spalle e svuotare un bicchiere di scotch. Lo sapeva anche Quinn, che continuava ad ostentare un broncio preoccupatissimo sul viso ancora infantile nonostante gli anni passati.
-Ti dò venti ore, Carter. Trovali.
Concluse Ritter, prima di riattaccare e tornare a fare il coglione con Neville.
Intanto, su un marciapiede a caso di Ghandi, 'Cilia Ritter e Paul Carter stavano cercando di accordarsi sulla suddivisione dei compiti. Avevano già buttato i cappelli in terra, giusto per essere pronti ad accogliere la sicura gratitudine del pubblico passante.
-Voglio cantare anche io.
Protestò Paul
-Sei stonato come una campana rotta.
Osservò placidamente 'Cilia.
-Anche tu.
Ribattè lui, in mancanza di meglio. Era un pessimo contaballe. Non riusciva a sostenere il suo sguardo per più di un paio di secondi, e lei lo sapeva. Un sorrisetto vittorioso s'incrostò sulle labbra.
-Tieni il ritmo, se ci riesci.
Gli affidò il tamburo sottratto alla collezione di Holden, tossicchando un poco per sgranchire l'ugola. Paul iniziò a colpire la pelle tesa sullo strumento con incertezza regolare. Pensava fosse ritmo. 'Cilia ondeggiò per alcuni secondi, cambiando direzione ad ogni colpo, prima di scollare le labbra.
-One of these days I'll get my boat on the water, my boat on the water one of these days...
La sua voce era ruvida come la lingua di un gattino, rabbiosamente limpida, incazzata nel profondo. Così come i ricci, come gli occhi taglienti, come tutta lei. Paul colpì il tamburo con più entusiasmo, tentando di sovrastare il rumore assordante del proprio cuore che sembrava battere ovunque. Nella gola, nelle tempie, fra i polpastrelli.
-My girl Cecilia Carter...
Sorrideva. Sorrideva in modo storto ed ondeggiava con i fianchi. Oltre al tamburo, un paio di tonfi metallici accompagnavano la sua voce, di tanto in tanto. Perso in un momento senza controllo, Paul credette di sentire miloni in entrata, nei loro cappelli. Controllando dopo, si sarebbero rivelati tredici dollari e sette cent.
Cecilia stava per attaccare la seconda strofa, quando la vista della divisa da sceriffo ne scoraggiò la cadenza ed il tono.
-Hrrrmm.
Finì un po' come finiscono i nastri quando al mangiacassette viene strappata la corrente. Uno sguardo cristallino, ripido. Svuotarsi i cappelli in tasca, tener ben stretto il tamburo e mettersi a correre come dei dannati. Svuotare i polmoni, appendere il respiro ad un gancio per recuperarlo solo fino all'ultima fermata. Le gambe già in fuiamme, si buttarono in uno shuttle pubblico di passaggio. Crollarono sui sedili scomodi in cuoio, usurati dalla condivisione di tutte le chiappe di Ghandi. Le gambe molli, il cuore come un rinoceronte impazzito nel petto. Ci mistero tre minuti a recuperare abbastanza fiato per riuscire a scoppiare a ridere.
-Basta. Vado.
Dichiarò Holden Carter, incassando il fatto che ora mancavano solo diciotto ore al termine stabilito da Ritter.
-....Dove?
Tentò di informarsi Quinn.
-A cercarli.
-Dove.
-...
Si guardarono per un lungo attimo. Divisero un sorriso, da buoni compagni di merenda. Un sorriso stanco, vagamente più rasserenato.
-Vengo con te.
Venne anche la fetta imburrata.
'Cilia e Paul saltarono giù dallo shuttle appena in tempo per capire che non avevano la più pallida idea di dove si trovassero. Condivisero un ghigno, quindi attraversarono la strada e si infilarono sotto l'arco dorato che dava su un parco verdissimo. Non era come gli altri parchi di Ghandi, il giardino di Zeduah. Era principalmente un ammasso di grandi prati verdi, erba costantemente tagliata all'altezza di sei pollici e mezzo, qua e là qualche fontanta e, molto più lontano, il tempio di Devi-Mahatmya. 'Cilia si sfilò le scarpe di tela ed affondò le dita dei piedi nell'erba morbida. Paul la imitò. Camminarono per parecchio tempo, prima di accorgersi che no, ora non si ricordavano nemmeno da dove fossero partiti. Fecero per cambiare direzione per l'ennesima volta quando un battito costante, morbido, pesante, fece incontrare di nuovo i loro sguardi. Constatato che non si trattava di una condivisione di cuore, avanzarono oltre un laghetto, fino ad aprirsi la vista fra gli alberi ed i cespugli e trovarsi davanti ad un tempio bianco. Bianchissimo, abbagliante. Un gruppo di donne e uomini in tunica bianca stava suonando, danzando in un mondo perso. Una miriade di acquiloni colorati galleggiavano nel vento, fermati a terra solo da fili sottili e chiodi infilzati nel terreno. Sull'erba, vicino ai chiodi, centinaia di lanterne bianche e rosse aspettavano spente, quiete. Si guardarono. Paul scosse il capo. 'Cilia annuì.
Holden incassò la testa nelle spalle, per l'ennesima volta. Quinn brandì il coltello corredato da fetta imburrata con meno convinzione.
-Sicuro?
Indagò, fissando un vecchio ubriacone. L'unico che si fosse degnato di rispondere loro, quando avevano chiesto di due ragazzini sui tredici-quattordici anni dall'aria scapigliata.
-Sssicuro. Tipo.. Shono shaliti sullo shhhuuuuut*hic*le. Quando shono arrivati gnli sbhirri.
-Che numero.
-Mmhhr. Tipo il...trentasedishi...o il ventottho. Non ricordo.
L'uomo crollò a terra, appoggiando il muso nella propria bava. Holden si voltò verso Quinn. Il trentasei ed il ventotto portavano in due punti esattamente opposti di Ghandi. Sempre che fossero stati lì, e che fossero saliti su uno shuuuuttle.
'Cilia stava già battendo le mani al ritmo del grande tamburo. Le era stata infilata una tunica bianca, troppo grande. Quella di Paul era troppo stretta, e lo faceva sembrare un misto fra un senatore dell'antichissima Roma della terra che fu, ed uno spogliarellista del Nightingale di Meili. Anche lui batteva le mani, ciccando il ritmo di tanto in tanto, troppo impegnato a far sì che la tunica non si arrampicasse su per le gambe rivelando più del dovuto.
-'ttanedaguerra, Paul. Guardaguardaguarda.
Miagolò lei con aria eccitatissima. Paul serrò la mano forte sotto il lembo della tunica per tenerlo a bada, e spostò lo sguardo sul punto indicato. Alcune donne anziane, capelli bianchi quanto le loro tuniche, si stavano avvicinando ai chiodi. Ognuna ad un gruppetto di chiodi.
-Noi siamo come loro.
-Come le vecchie? - Paul storse il naso.
-No, bamboccione. Come gli aquiloni. Vedi, quelli eravamo noi stamattina.
Ghignò sordamente. Adorava i clichè. Era il periodo in cui aveva valutato cosa tatuarsi sulla schiena. Prima che Ritter la ripescasse a due millimetri dalla punta riempita d'inchiostro, tirandola verso casa per le orecchie.
Paul annuì, dando segno di seguire la metafora, ora. Sapeva anche cosa sarebbe successo. Le anziane si accucciarono a terra, il ritmo del tamburo si intensificò. Le mani di 'Cilia cercarono quelle di Paul, tirandoselo dietro in una girandola spericolata. Non sapevano ballare. Per nulla. I ritmi accelerarono. Quello del cuore, dei cuori, quello della musica, quello del vento, quello dei pensieri. Quello del profumo dei capelli di lei infilato fra le narici di lui. Quello dei piedi a sfilare sull'erba, quella dello sfondo sfuocato, tirato brusacamente come le linee di un pittore impaziente. Quello del 'Verse. Poi il silenzio, improvviso. Alla fine del vortice, solo il silenzio. Le mani incassarono uno strappo brusco. Crollarono a terra. Non solo loro due, ma tutti. Tutte le tuniche bianche. Le vecchie liberarono i chiodi. Liberarono centotredici aquiloni nel cielo estivo di Ghandi. I volti, tutti i volti alzati verso il cielo. Le ombre di centotredici aquiloni a sfiorarli.
-Come loro. -Ripetè Paul
-In alto come loro.
-Highasakite. -Sbuffò Paul, affondando il viso di lato, fra i capelli di Cecilia Ritter. Solo dopo qualche istante si accorse del fatto che non era l'erba, quella. Si ritirò con discrezione, appuntando di nuovo gli occhi al cielo in mille colori. Il più grande quadro del 'Verse si stava agitando sopra di loro. E sarebbe sparito nel giro di pochi secondi.
-Highasakite.
Quinn Thomson e Holden Carter erano piantati fermi, in piedi davanti al centro di sperimentazione aerospaziale di Ghandi.
-Cosa, vuole fare il pilota anche lui, adesso?
-Non sono qui.
Assicurò Quinn, mentre si avviavano verso la reception.
-Scommettiamo?
Ghignò Holden, superando le porte ruotanti. Fecero quel gioco scemo che facevano sempre. Si inseguirono per tre giri e mezzo prima di entrare. Prima di avvinarsi alla risposta, ed incassare la risposta limpidissima.
-Okay.
Ammise lui, fissando la moglie.
-Cosa ho perso?
Quinn sorrise silenziosamente, prendendogli la mano con la propria piccola sottile. Se lo trascinò dietro, sempre brandendo il paneeburro nell'altra.
-Parliamo di cosa ho vinto io, piuttosto.
Era calata la sera. Il sole era scivolato via dal cielo di Elèria tanto rapidamente quanto l'aveva invaso la mattina, poco dopo che si dileguassero dalla stanza di Paul. Il gruppo di fedeli s'era inspessito a poco a poco, e, senza accorgersene, si erano trovati in mezzo ad una folla in tunica bianca. I canti iniziarono solo con il calar del sole. Un uomo giovane, con piume nei capelli ed un trucco selvaggio sul volto, alzò nell'aria una voce dolcissima. Una donna vestita di rosso lo accompagnava al tamburo, mentre altre donne e uomini in mezzo alla folla iniziarono a tessere le loro voci insieme fino a fonderle in un unico e perfetto arazzo. Solo quando il buio staccò l'ultimo morso all'iris una delle anziane si chinò, raccogliendo la lanterna di carta ai suoi piedi. La alzò sopra di sè, in modo da mostrarla a tutti.
-Dimentichiamo per ricordare. E' nel tutto che troviamo il singolo, e solo nell'universo infinito troviamo noi stessi. Le nostre anime tornano a fondersi.
I fedeli imitarono l'anziana, raccogliendo le centinaia di lanterne appoggiate a terra. Le mani libere, come quelle di Paul Carter e Cecilia Ritter, cozzavano seguendo il ritmo del tamburo. C'era un'euforia pacifica nell'aria. Poi fu questione di istanti. Di battiti cardiaci, di mezzi respiri. Le lanterne si accesero. Tutte. Le dita mollarono la presa, e nel cielo quieto del giardino di Zeduah si sollevò una nuvola di luci volanti di carta. Galleggiavano nell'aria come centinaia di lucciole obese, come pensieri fatti e non finiti. Come parti di tutti in cerca di un rifugio migliore. Come le forze del cuore in cerca del sole. Non ci furono più parole. Paul prese Cecilia, e se la piazzò sulle spalle. In un tentativo di permetterle di aggrapparsi ad una luce e sparire in cielo. Nel volo più perfetto che la vita le avrebbe mai permesso. Era la sua parte migliore, lei. Quella destinata al sole. Quella da cui ci si separa solo con la consapevolezza che in realtà è tutto. Tutto.
Meno un'ora alla fatidica chiamata cortex di Eleazar Ritter. Holden Carter portava la disperazione in volto, e Quinn Thomson fra le braccia. Raggiunse il viale familiare, quello di casa. Non sapeva più che fare. Il cielo a Nord iniziava a macchiarsi delle leccate violacee dell'alba. Il sole stava per baciare i palazzi più alti di Ghandi, quelli che si attorcigliavano come piante esotiche fatte di vetro. Era stanco, l'intero corpo pesante, i passi trascinati. Inciampò quasi, poco distante dalla porta. Ciondolò, recuperò l'equlibrio, ed alzò lo sguardo. Dalla parte opposta dello stesso viale, era in arrivo una figura fin troppo conosciuta. Una figura sola, composta da due pezzi perfettamente compatibili. Cecilia Ritter dormiva, crollata sulle spalle e sulla schiena di Paul Carter, che la sosteneva fieramente. Aveva l'aria di un cavaliere tornato dalla battaglia. Vittorioso. I due Carter si fermarono, ognuno a tre metri esatti dalla porta, con tre metri esatti fra di loro. E sorrisero. In silenzio.
Il giorno dopo, Quinn Thomson prese la saldatrice, quattro sbarre metalliche, e piombò le finestre della stanza di suo figlio.
-Tieni il ritmo, se ci riesci.
Gli affidò il tamburo sottratto alla collezione di Holden, tossicchando un poco per sgranchire l'ugola. Paul iniziò a colpire la pelle tesa sullo strumento con incertezza regolare. Pensava fosse ritmo. 'Cilia ondeggiò per alcuni secondi, cambiando direzione ad ogni colpo, prima di scollare le labbra.
-One of these days I'll get my boat on the water, my boat on the water one of these days...
La sua voce era ruvida come la lingua di un gattino, rabbiosamente limpida, incazzata nel profondo. Così come i ricci, come gli occhi taglienti, come tutta lei. Paul colpì il tamburo con più entusiasmo, tentando di sovrastare il rumore assordante del proprio cuore che sembrava battere ovunque. Nella gola, nelle tempie, fra i polpastrelli.
-My girl Cecilia Carter...
Sorrideva. Sorrideva in modo storto ed ondeggiava con i fianchi. Oltre al tamburo, un paio di tonfi metallici accompagnavano la sua voce, di tanto in tanto. Perso in un momento senza controllo, Paul credette di sentire miloni in entrata, nei loro cappelli. Controllando dopo, si sarebbero rivelati tredici dollari e sette cent.
Cecilia stava per attaccare la seconda strofa, quando la vista della divisa da sceriffo ne scoraggiò la cadenza ed il tono.
-Hrrrmm.
Finì un po' come finiscono i nastri quando al mangiacassette viene strappata la corrente. Uno sguardo cristallino, ripido. Svuotarsi i cappelli in tasca, tener ben stretto il tamburo e mettersi a correre come dei dannati. Svuotare i polmoni, appendere il respiro ad un gancio per recuperarlo solo fino all'ultima fermata. Le gambe già in fuiamme, si buttarono in uno shuttle pubblico di passaggio. Crollarono sui sedili scomodi in cuoio, usurati dalla condivisione di tutte le chiappe di Ghandi. Le gambe molli, il cuore come un rinoceronte impazzito nel petto. Ci mistero tre minuti a recuperare abbastanza fiato per riuscire a scoppiare a ridere.
-Basta. Vado.
Dichiarò Holden Carter, incassando il fatto che ora mancavano solo diciotto ore al termine stabilito da Ritter.
-....Dove?
Tentò di informarsi Quinn.
-A cercarli.
-Dove.
-...
Si guardarono per un lungo attimo. Divisero un sorriso, da buoni compagni di merenda. Un sorriso stanco, vagamente più rasserenato.
-Vengo con te.
Venne anche la fetta imburrata.
'Cilia e Paul saltarono giù dallo shuttle appena in tempo per capire che non avevano la più pallida idea di dove si trovassero. Condivisero un ghigno, quindi attraversarono la strada e si infilarono sotto l'arco dorato che dava su un parco verdissimo. Non era come gli altri parchi di Ghandi, il giardino di Zeduah. Era principalmente un ammasso di grandi prati verdi, erba costantemente tagliata all'altezza di sei pollici e mezzo, qua e là qualche fontanta e, molto più lontano, il tempio di Devi-Mahatmya. 'Cilia si sfilò le scarpe di tela ed affondò le dita dei piedi nell'erba morbida. Paul la imitò. Camminarono per parecchio tempo, prima di accorgersi che no, ora non si ricordavano nemmeno da dove fossero partiti. Fecero per cambiare direzione per l'ennesima volta quando un battito costante, morbido, pesante, fece incontrare di nuovo i loro sguardi. Constatato che non si trattava di una condivisione di cuore, avanzarono oltre un laghetto, fino ad aprirsi la vista fra gli alberi ed i cespugli e trovarsi davanti ad un tempio bianco. Bianchissimo, abbagliante. Un gruppo di donne e uomini in tunica bianca stava suonando, danzando in un mondo perso. Una miriade di acquiloni colorati galleggiavano nel vento, fermati a terra solo da fili sottili e chiodi infilzati nel terreno. Sull'erba, vicino ai chiodi, centinaia di lanterne bianche e rosse aspettavano spente, quiete. Si guardarono. Paul scosse il capo. 'Cilia annuì.
Holden incassò la testa nelle spalle, per l'ennesima volta. Quinn brandì il coltello corredato da fetta imburrata con meno convinzione.
-Sicuro?
Indagò, fissando un vecchio ubriacone. L'unico che si fosse degnato di rispondere loro, quando avevano chiesto di due ragazzini sui tredici-quattordici anni dall'aria scapigliata.
-Sssicuro. Tipo.. Shono shaliti sullo shhhuuuuut*hic*le. Quando shono arrivati gnli sbhirri.
-Che numero.
-Mmhhr. Tipo il...trentasedishi...o il ventottho. Non ricordo.
L'uomo crollò a terra, appoggiando il muso nella propria bava. Holden si voltò verso Quinn. Il trentasei ed il ventotto portavano in due punti esattamente opposti di Ghandi. Sempre che fossero stati lì, e che fossero saliti su uno shuuuuttle.
'Cilia stava già battendo le mani al ritmo del grande tamburo. Le era stata infilata una tunica bianca, troppo grande. Quella di Paul era troppo stretta, e lo faceva sembrare un misto fra un senatore dell'antichissima Roma della terra che fu, ed uno spogliarellista del Nightingale di Meili. Anche lui batteva le mani, ciccando il ritmo di tanto in tanto, troppo impegnato a far sì che la tunica non si arrampicasse su per le gambe rivelando più del dovuto.
-'ttanedaguerra, Paul. Guardaguardaguarda.
Miagolò lei con aria eccitatissima. Paul serrò la mano forte sotto il lembo della tunica per tenerlo a bada, e spostò lo sguardo sul punto indicato. Alcune donne anziane, capelli bianchi quanto le loro tuniche, si stavano avvicinando ai chiodi. Ognuna ad un gruppetto di chiodi.
-Noi siamo come loro.
-Come le vecchie? - Paul storse il naso.
-No, bamboccione. Come gli aquiloni. Vedi, quelli eravamo noi stamattina.
Ghignò sordamente. Adorava i clichè. Era il periodo in cui aveva valutato cosa tatuarsi sulla schiena. Prima che Ritter la ripescasse a due millimetri dalla punta riempita d'inchiostro, tirandola verso casa per le orecchie.
Paul annuì, dando segno di seguire la metafora, ora. Sapeva anche cosa sarebbe successo. Le anziane si accucciarono a terra, il ritmo del tamburo si intensificò. Le mani di 'Cilia cercarono quelle di Paul, tirandoselo dietro in una girandola spericolata. Non sapevano ballare. Per nulla. I ritmi accelerarono. Quello del cuore, dei cuori, quello della musica, quello del vento, quello dei pensieri. Quello del profumo dei capelli di lei infilato fra le narici di lui. Quello dei piedi a sfilare sull'erba, quella dello sfondo sfuocato, tirato brusacamente come le linee di un pittore impaziente. Quello del 'Verse. Poi il silenzio, improvviso. Alla fine del vortice, solo il silenzio. Le mani incassarono uno strappo brusco. Crollarono a terra. Non solo loro due, ma tutti. Tutte le tuniche bianche. Le vecchie liberarono i chiodi. Liberarono centotredici aquiloni nel cielo estivo di Ghandi. I volti, tutti i volti alzati verso il cielo. Le ombre di centotredici aquiloni a sfiorarli.
-Come loro. -Ripetè Paul
-In alto come loro.
-Highasakite. -Sbuffò Paul, affondando il viso di lato, fra i capelli di Cecilia Ritter. Solo dopo qualche istante si accorse del fatto che non era l'erba, quella. Si ritirò con discrezione, appuntando di nuovo gli occhi al cielo in mille colori. Il più grande quadro del 'Verse si stava agitando sopra di loro. E sarebbe sparito nel giro di pochi secondi.
-Highasakite.
Quinn Thomson e Holden Carter erano piantati fermi, in piedi davanti al centro di sperimentazione aerospaziale di Ghandi.
-Cosa, vuole fare il pilota anche lui, adesso?
-Non sono qui.
Assicurò Quinn, mentre si avviavano verso la reception.
-Scommettiamo?
Ghignò Holden, superando le porte ruotanti. Fecero quel gioco scemo che facevano sempre. Si inseguirono per tre giri e mezzo prima di entrare. Prima di avvinarsi alla risposta, ed incassare la risposta limpidissima.
-Okay.
Ammise lui, fissando la moglie.
-Cosa ho perso?
Quinn sorrise silenziosamente, prendendogli la mano con la propria piccola sottile. Se lo trascinò dietro, sempre brandendo il paneeburro nell'altra.
-Parliamo di cosa ho vinto io, piuttosto.
Era calata la sera. Il sole era scivolato via dal cielo di Elèria tanto rapidamente quanto l'aveva invaso la mattina, poco dopo che si dileguassero dalla stanza di Paul. Il gruppo di fedeli s'era inspessito a poco a poco, e, senza accorgersene, si erano trovati in mezzo ad una folla in tunica bianca. I canti iniziarono solo con il calar del sole. Un uomo giovane, con piume nei capelli ed un trucco selvaggio sul volto, alzò nell'aria una voce dolcissima. Una donna vestita di rosso lo accompagnava al tamburo, mentre altre donne e uomini in mezzo alla folla iniziarono a tessere le loro voci insieme fino a fonderle in un unico e perfetto arazzo. Solo quando il buio staccò l'ultimo morso all'iris una delle anziane si chinò, raccogliendo la lanterna di carta ai suoi piedi. La alzò sopra di sè, in modo da mostrarla a tutti.
-Dimentichiamo per ricordare. E' nel tutto che troviamo il singolo, e solo nell'universo infinito troviamo noi stessi. Le nostre anime tornano a fondersi.
I fedeli imitarono l'anziana, raccogliendo le centinaia di lanterne appoggiate a terra. Le mani libere, come quelle di Paul Carter e Cecilia Ritter, cozzavano seguendo il ritmo del tamburo. C'era un'euforia pacifica nell'aria. Poi fu questione di istanti. Di battiti cardiaci, di mezzi respiri. Le lanterne si accesero. Tutte. Le dita mollarono la presa, e nel cielo quieto del giardino di Zeduah si sollevò una nuvola di luci volanti di carta. Galleggiavano nell'aria come centinaia di lucciole obese, come pensieri fatti e non finiti. Come parti di tutti in cerca di un rifugio migliore. Come le forze del cuore in cerca del sole. Non ci furono più parole. Paul prese Cecilia, e se la piazzò sulle spalle. In un tentativo di permetterle di aggrapparsi ad una luce e sparire in cielo. Nel volo più perfetto che la vita le avrebbe mai permesso. Era la sua parte migliore, lei. Quella destinata al sole. Quella da cui ci si separa solo con la consapevolezza che in realtà è tutto. Tutto.
Meno un'ora alla fatidica chiamata cortex di Eleazar Ritter. Holden Carter portava la disperazione in volto, e Quinn Thomson fra le braccia. Raggiunse il viale familiare, quello di casa. Non sapeva più che fare. Il cielo a Nord iniziava a macchiarsi delle leccate violacee dell'alba. Il sole stava per baciare i palazzi più alti di Ghandi, quelli che si attorcigliavano come piante esotiche fatte di vetro. Era stanco, l'intero corpo pesante, i passi trascinati. Inciampò quasi, poco distante dalla porta. Ciondolò, recuperò l'equlibrio, ed alzò lo sguardo. Dalla parte opposta dello stesso viale, era in arrivo una figura fin troppo conosciuta. Una figura sola, composta da due pezzi perfettamente compatibili. Cecilia Ritter dormiva, crollata sulle spalle e sulla schiena di Paul Carter, che la sosteneva fieramente. Aveva l'aria di un cavaliere tornato dalla battaglia. Vittorioso. I due Carter si fermarono, ognuno a tre metri esatti dalla porta, con tre metri esatti fra di loro. E sorrisero. In silenzio.
Il giorno dopo, Quinn Thomson prese la saldatrice, quattro sbarre metalliche, e piombò le finestre della stanza di suo figlio.
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